Mentre mi accingo dopo oltre 25 anni ad una rilettura cronologicamente cadenzata dell'intera opera di Friederich Nietzsche mi imbatto in questi propositi del filosofo dodicenne che il 26 dicembre 1856 scriveva: «Finalmente è presa la decisione di tenere un diario in cui affidare alla memoria tutto ciò che di triste o di lieto colpisce il mio cuore, così che, a distanza di anni, io possa riandare alla vita e all'attività di quest'epoca e soprattutto ricordare 'me stesso'. Possa questa risoluzione non vacillare mai, nonostante i notevoli ostacoli che vi si frappongono». Il proposito è stato mantenuto nel senso che Nietzche in tutto l'arco ha della sua vita ha scritto molto, anche se probabilmente non è stato quegli che ha scritto di più in assoluto, cioè in termini quantitativi. E' però paradossale pensare che forse la scoperta più importante della sua speculazione filosofica è stata la riscoperta di quei sapienti antichi, vissuti prima di Aristotel e Platone, la cui sapienza non era consegnata alla scrittura. Mal si concilia in effetti la figura del sapiente pienamente compreso della tragicità dell'esistere con l'attività scrittoria del professionista che deve trascorrere non poche ore della sua giornata seduto ad una scrivania, spesso solo per imbrattare carta che forse era meglio non sciupare, lasciando vivere l'albero dalla quale è stata ricavata.
sabato, luglio 15, 2006
lunedì, maggio 01, 2006
L'etica pubblica tradotta in spiccioli
Dagli Autori si deve poter ricavare qualche utile per la vita quotidiana. Una loro venerazione feticistica, un uso puramente scolastico, è un modo per imbalsamarli, rendendo il tempo trascorso con loro un'occupazione di gente che ha per l'appunto tempo da perdere con l'ora. In quest blog sperimentale ho detto che mi riservo il diritto alla sciocchezza innocente. Ma veniamo al punto.
Corregendo le bozze di un saggio di Schmitt del 1930 su "Etica dello Stato e Sato pluralistico", mi sorprende un poco come già nel 1930 Schmitt avesse chiaro un problema che sembra l'ultima moda dei nostri giorni. Era uscito un libro di Alfred Weber su "La crisi del concetto europeo di Stato": e siamo già nel 1930! Schmitt nota che vi si trova «un'approfondita letteratura teorica sullo Stato e il diritto internazionale», che però è utilizzata ad un preciso scopo: il tentativo (non riuscito, dunque?) «il concetto di sovranità e con questo concetto la concezione tradizionale dello Stato come unità che sovrasta tutti i gruppi». Da quando Schmitt svolgeva le sue considerazioni sembra che una previsione, o un timore, si sia verificata- Egli scriveva nel 1930: «Se il “dio terreno“ cade dal suo trono e il regno della ragione oggettiva e dell'eticità diventa un "magnum latrocinium", allora i partiti macellano il potente Leviatano e si tagliano dal suo corpo ognuno il suo pezzo di carne». Ciò accade come conseguenza del discredito in cui lo Stato è caduto. Mi chiedo in questi giorni di insediamento del nuovo governo cosa in effetti stia accadendo. Mi pare proprio che ognuno si stia tagliando il suo “pezzo di carne”.
Corregendo le bozze di un saggio di Schmitt del 1930 su "Etica dello Stato e Sato pluralistico", mi sorprende un poco come già nel 1930 Schmitt avesse chiaro un problema che sembra l'ultima moda dei nostri giorni. Era uscito un libro di Alfred Weber su "La crisi del concetto europeo di Stato": e siamo già nel 1930! Schmitt nota che vi si trova «un'approfondita letteratura teorica sullo Stato e il diritto internazionale», che però è utilizzata ad un preciso scopo: il tentativo (non riuscito, dunque?) «il concetto di sovranità e con questo concetto la concezione tradizionale dello Stato come unità che sovrasta tutti i gruppi». Da quando Schmitt svolgeva le sue considerazioni sembra che una previsione, o un timore, si sia verificata- Egli scriveva nel 1930: «Se il “dio terreno“ cade dal suo trono e il regno della ragione oggettiva e dell'eticità diventa un "magnum latrocinium", allora i partiti macellano il potente Leviatano e si tagliano dal suo corpo ognuno il suo pezzo di carne». Ciò accade come conseguenza del discredito in cui lo Stato è caduto. Mi chiedo in questi giorni di insediamento del nuovo governo cosa in effetti stia accadendo. Mi pare proprio che ognuno si stia tagliando il suo “pezzo di carne”.
mercoledì, aprile 19, 2006
La Fama secondo Francesco Bacone
Francesco Bacone (1561-1626) scrisse un libretto sulla »Sapienza degli antichi« che ebbe dapprima molto successo e poi cadde nel dimenticatoio. Di recente questo libretto è stato rivalutato non tanto per il valore filologico nella ricostruzione dei miti antichi quanto perché è da considerarsi una genuina espressione del pensiero stesso di Bacone che molto si affaticò per rinnovare il pensiero scientifico dei suoi tempi. Sembra di capire in una delle sue favole una profonda sfiducia nella capacità del popolo o delle moltitudini di potersi reggere autonomamente. I nostri tempi differiscono dai suoi per una diffusione dell'istruzione di base alloraa impensabile. La lotta contro l'analbetismo è tra i principali obiettivi dell'azione politica. I nostri tempi hanno più bisogno di conoscenze diffuse che non ai tempi di Bacone. Ed i tempi a venire richiedono un'istruzione di massa sempre più crescente e diffusa. Possibile che non ci siano lo stesso i presupposti per una democrazia diretta del popolo ed un superamento del rapporto di rappresentanza politica. I fenomeni che Bacone attribuiva alla Fama possiamo ancora oggi osservarli nell'azione delle ideologie falsificanti e strumentali, nella demonizzazione dell'avversario politico, nel facile modo con cui gli eletti si liberano dei loro elettori una volta che ne hanno preso il voto, in un'infinità di episodi quotidiani che frustano ogni pratica politica volta a rendere i cittadini soggetti della politica anzichè oggetto di manipolazione da una parte e dall'altra in egual modo,
giovedì, marzo 09, 2006
Il bene comune in Chomsky
Il libro che sto per leggere appare interessante fin nella presentazione del suo curatore, che subito smitizza uno dei pilastri del nostro sistema democratico: l'apparato dei media studiato appositamente per addormentare e addomesticare le coscienze, mirando «a ridurre i cittadini a semplici spettatori e consumatori passivi». E ci voleva proprio un filosofo linguista per “smontare" le menzogne sistematiche di un meccanismo che cerca di legittimare guerre e sfruttamento nel nome di miti che poco potrebbero resistere se si trovassero davanti cittadini non recettori passivi, ma interlocutori attivi della democrazia formale. Chomsky parte da Aristotele, pericoloso radicale, che dava per scontato: a) che una democrazia dovesse essere partecipativa; b) che suo obiettivo dovesse essere il bene comune. Aristotele o no, è difficile non essere d'accordo su questi punti.
Meno semplice e più problematico è un altro assioma che Noam Chomsky sembra condividere: l'idea che grande ricchezza e democrazia non possano coesistere. Infatti, se il nemico è la ricchezza in sé, si potrebbe pensare che la società perfetta è quella delle bestie, dove non esistono ricchi o poveri, ma sono tutte bestie che vivono allo stesso modo. Inoltre, la ricchezza è un prodotto del lavoro umano, almeno in origine. La strada corretta pare invece quella della progressiva riduzione della povertà. Ma come? Sta in ciò buona parte dell'arte della politica. Se James Madison è da annoverare fra i padri fondatori della democrazia americana, egli pensava – osserva Chomsky – che per risolvere l'opposizione fra grande ricchezza e democrazia, si dovesse ridurre la democrazia, assicurando il dominio della minoranza degli opulenti. Se le cose stanno così, diventa una bufala l'entusiasmo di quanti osannano l'America come la più grande democrazia del mondo, da seguire in tutto e per tutto come un modello.
Non voglio analizzare tutta l'intervista di Chomsky sul bene comune, agevole da leggere benché il titolo faccia pensare a qualcosa di tomisticamente noioso. Non ne ho il tempo, anche se Chomsky merita tutto il tempo. Voglio tirare ad indovinare una possibile soluzione al dilemma che mi pare di aver intravisto. Posso sempre ritornare su questo testo, cancellando ed integrando. Ebbene, se l'uomo discende dalla scimmia, si distingue con il tempo in una cosa: ha perso il pelo. Ciò significa che per proteggersi dal freddo e dalle intemperie, ha bisogno di una pelliccia, del fuoco, di una caverna, e così via. Si può dividere il sistema dei bisogni in due livelli: una soglia minima sotto la quale non si può vivere, ma semplicemente si muore. Questa soglia muta storicamente sotto l'azione congiunta di fattori molteplici, volontari ed involontari, casuali o catastrofici. Dovremmo rileggere con un'ottica apposita l'intera storia umana, ossia ciò che si chiama comunemente preistoria (la gran parte della condizione umana) ed il minor periodo detto storia in quanto caratterizzato dall'invenzione e dall'uso della scrittura: una miserabile distinzione poco utile per la conoscenza dell'uomo nella sua interezza.
Soddisfatta la soglia minima dei bisogni, gli uomini possono essere spinti verso il lusso o le comodità che ad altri paiono eccessive e perfino offensive. Non si dovrebbe essere caustici. Anche in queste cose una certa tolleranza non guasterebbe. Ciò che in un baldo e vispo giovane può apparire inutile, diventa necessario per un anziano che appena si regge sulle gambe: una sedia può essere un bisogno essenziale per un anziano. Non ne ho voluto sapere di telefonini fino a quando un'emergenza non ha reso necessaria la mia pronta reperibilità. E così potrei dire per la macchina ed altre cose.
Insomma, chi sviluppa il sistema dei bisogni può avere una funzione trainante nell'innalzamento della soglia minima. Il "ricco" pertanto non dovrebbe sempre essere dipinto in modo tale da renderlo odioso ai più. Può avere una funzione socialmente utile nella misura in cui sviluppa la sensibilità umana. L'invidia non è un sentimento nobile. Gli uomini dovrebbero essere valutati non per ciò che possiedono ma per le loro qualità personali ed i mezzi materiali dovrebbero essere sempre posti al servizio dell'uomo e non costituire essi uno scopo, lo scopo, a detrimento dell'uomo stesso e della sua dignitò. Credo che Chomsky vada in questo senso del discorso, quando teorizza: «Ogni sforzo teso a creare un'esistenza più umana finisce col limitare la libertà di qualcun altro». E' di nuovo l'arte della politica, una scienza necessaria ed in un certo senso preliminare ad ogni altra: una philosophia prima.
Meno semplice e più problematico è un altro assioma che Noam Chomsky sembra condividere: l'idea che grande ricchezza e democrazia non possano coesistere. Infatti, se il nemico è la ricchezza in sé, si potrebbe pensare che la società perfetta è quella delle bestie, dove non esistono ricchi o poveri, ma sono tutte bestie che vivono allo stesso modo. Inoltre, la ricchezza è un prodotto del lavoro umano, almeno in origine. La strada corretta pare invece quella della progressiva riduzione della povertà. Ma come? Sta in ciò buona parte dell'arte della politica. Se James Madison è da annoverare fra i padri fondatori della democrazia americana, egli pensava – osserva Chomsky – che per risolvere l'opposizione fra grande ricchezza e democrazia, si dovesse ridurre la democrazia, assicurando il dominio della minoranza degli opulenti. Se le cose stanno così, diventa una bufala l'entusiasmo di quanti osannano l'America come la più grande democrazia del mondo, da seguire in tutto e per tutto come un modello.
Non voglio analizzare tutta l'intervista di Chomsky sul bene comune, agevole da leggere benché il titolo faccia pensare a qualcosa di tomisticamente noioso. Non ne ho il tempo, anche se Chomsky merita tutto il tempo. Voglio tirare ad indovinare una possibile soluzione al dilemma che mi pare di aver intravisto. Posso sempre ritornare su questo testo, cancellando ed integrando. Ebbene, se l'uomo discende dalla scimmia, si distingue con il tempo in una cosa: ha perso il pelo. Ciò significa che per proteggersi dal freddo e dalle intemperie, ha bisogno di una pelliccia, del fuoco, di una caverna, e così via. Si può dividere il sistema dei bisogni in due livelli: una soglia minima sotto la quale non si può vivere, ma semplicemente si muore. Questa soglia muta storicamente sotto l'azione congiunta di fattori molteplici, volontari ed involontari, casuali o catastrofici. Dovremmo rileggere con un'ottica apposita l'intera storia umana, ossia ciò che si chiama comunemente preistoria (la gran parte della condizione umana) ed il minor periodo detto storia in quanto caratterizzato dall'invenzione e dall'uso della scrittura: una miserabile distinzione poco utile per la conoscenza dell'uomo nella sua interezza.
Soddisfatta la soglia minima dei bisogni, gli uomini possono essere spinti verso il lusso o le comodità che ad altri paiono eccessive e perfino offensive. Non si dovrebbe essere caustici. Anche in queste cose una certa tolleranza non guasterebbe. Ciò che in un baldo e vispo giovane può apparire inutile, diventa necessario per un anziano che appena si regge sulle gambe: una sedia può essere un bisogno essenziale per un anziano. Non ne ho voluto sapere di telefonini fino a quando un'emergenza non ha reso necessaria la mia pronta reperibilità. E così potrei dire per la macchina ed altre cose.
Insomma, chi sviluppa il sistema dei bisogni può avere una funzione trainante nell'innalzamento della soglia minima. Il "ricco" pertanto non dovrebbe sempre essere dipinto in modo tale da renderlo odioso ai più. Può avere una funzione socialmente utile nella misura in cui sviluppa la sensibilità umana. L'invidia non è un sentimento nobile. Gli uomini dovrebbero essere valutati non per ciò che possiedono ma per le loro qualità personali ed i mezzi materiali dovrebbero essere sempre posti al servizio dell'uomo e non costituire essi uno scopo, lo scopo, a detrimento dell'uomo stesso e della sua dignitò. Credo che Chomsky vada in questo senso del discorso, quando teorizza: «Ogni sforzo teso a creare un'esistenza più umana finisce col limitare la libertà di qualcun altro». E' di nuovo l'arte della politica, una scienza necessaria ed in un certo senso preliminare ad ogni altra: una philosophia prima.
giovedì, gennaio 26, 2006
Giordano Bruno: un precursore o un epigono?
Il libro di Yates mi è apparso interessante al suo esordio, quando accenna ad una sua inziale interpretazione di Giordano Bruno secondo cui "questo audace filosofo del Rinascimento aveva fatta sua la teoria copernicana", ma poi ad una più matura riflessione ritiene che il filosofo nolano vada inteso ed interpretato nell'ambito della tradizione ermetica, materia per me complicata e piuttosto noiosa. Ha certamente ragione Yates che sull'argomento ha speso parecchio tempo. Io mi limiti ad alcun spunti senza pretese. Sia Bruno sia Galilei hanno in qualche maniera anticipato e posto le basi del nostro di pensare il cosmo. E mi riferisco all'uomo comune che passeggia per le strade e che avrà pur guardato qualche volta il cielo. Bruno e Galilei avevano strumenti e metodi diversi. Galilei si era servito del cannocchiale e soprattutto seguiva il metodo dell'esperienza e della verificabilità delle teorie. Bruno, come tutti i filosofi, disponeva della sua fantasia che quando viene elaborata può diventare teoria. La meditazione odierna si limita ad accentuare il valore della fantasia, troppo spesso vituperata. No! Signori, andiamoci piano la fantasia è cosa importante, forse alla base di ogni attività intellettiva. Bisogna saperle dare il giusto ruolo e rilievo, ma giammai pensare che sia cosa disprezzabile. Guai se non avessimo un briciolo di fantasia. Non dobbiamo vergognarcene.
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