domenica, giugno 02, 2013

La “scena parlamentare” come palcoscenico dell’azione dei partiti politici nelle pagine di Ostrogorsky

Leggendo nella prefazione che Moisei Yakovlevich Ostrogorski scrive nel 1902 alla sua classica opera Democrazia e partiti politici si riconoscono temi che diverrano poi familiari in Carl Schmitt, dove si delinea la perdita di senso del parlamentarismo classico, imperniato su una figura di parlamentare che ancora non conosceva i moderni partiti di massa e poteva credere nella ragione illuministica sensibile alla forza intrinseca del “discorso”, per il quale si sarebbe potuto guadagnare l’avversario parlamentare alle proprie posizioni se apparivano convincenti a conforme a ragione oltre che all’interesse pubblico. Il divieto di mandato imperativo – di cui oggi tanto si dibatte – aveva questo retroterra concettuale e spirituale.

Ma  non pare che le cose stiano proprio così ed è quelle che tenteremo di vedere seguendo un piano di letture sincroniche e diacroniche. Per adesso iniziamo con l’aggiornamento di questo blog che conserva la sua ragione d’essere, malgrado il poco tempo ad esso dedicato. Il Lettore occasionale che dovesse capitare qui deve avere la bontà di considerare quello che è stato detto molte altre volte. Queste sono schede, aperte, pubbliche, di letture in corso. Non sono niente di definitivo, assoluto, apodittico.

giovedì, aprile 28, 2011

Leggendo Marcello che si finge Lucilio e scrive a Seneca

Vers. 1.0/28.4.11

Non immaginavo che avrei scritto subito in margine al libro di Marcello Veneziani su Seneca. Questo blog che mi sta non poco a cuore aveva bisogno di urgente aggiornamento. Voglio insistere sul tono dimesso e per nulla pretenzioso di ciò che mi capiterà di scrivere: non intendo emulare Hegel, Kant o Seneca. Nessuna pretesa blasfema di questo genere. Parto semplicemente dall’assunto che ogni uomo per il fatto di essere pensante abbia pensieri, sui quale qualche volta è il caso di soffermarsi. Pur avendo fatto per tutta la vita professionale lo specifico mestiere di “filosofo”, nel senso che percepisco uno stipendio per occuparmi di filosofia, sono state sempre estremanente riluttante a qualificarmi come “filosofo”. Ma allora, se non lo sono, che sono? Mah! Lasciamo perdere. Parliamo invece del Seneca (e del Lucilio) di Marcello Veneziani. Ho detto altrove che avrei letto il libro, per fortuna non voluminoso, di appena 130 pagine, e ne avrei scritto note a margine. Penso che sia più opportuno concentrarle tutte il questo stesso post, che avrà puù versioni. Se a Marcello capiterà di navigherà fino a questa pagina, o vorrà farlo di tanto in tanto, potrà sapere – dal numero della versione e dalla data – l’ultima volta che ci ho messo mano. Se mai la cosa si dovesse sviluppare in dimensioni, non lo so, predispongo già un sommario ed una serie di links, interni ed esterni, per una più agevole lettura, magari per lo stesso Marcello, che potrebbe essere interessato alle reazioni mentali che il suo ultimo libro può suscitare in un suo lettore, per giunta suo amico, o che si onora di esserlo e di dichiararsi tale.

Sommario: 1. Il passato che ci divide. –

1. Il passato che ci divide. – Mi ero messo steso sul divano, iniziando la lettura di Marcello, che parla fantasticamente del ritrovamento in Pompei delle lettere di Lucilio. L’accenno all’assoluta vergogna del crollo del nostro patrimonio artistico e monumentale è di assoluta evidenza. Non credo che questo triste fatto di cronaca della nostra decadenza merito ulteriore commento. Più meritevole mi sembra un’altra considerazione, che mi ha occupato per molto tempo e che non credo di avere risolto. Il padre di Marcello era un insegnante di filosofia e fu da suo padre che Marcello ebbe in mano il testo di Seneca. In un senso tutto scolastico Marcello ha dunque già appreso dal padre tutto quello che su Seneca si può apprendere a scuola, e che poi magari si dimentica, cancellato più dalla noia che dal fatale indebolimento della memoria. Il problema che mi pongo e pongo è il seguente: i duemila anni, circa, che ci separano da Seneca ed il Lucilio storico sono o non sono una barriera incolmabile?

Un pensiero, originale, si forma e riforma sempre in un contesto storico determinato. Quando noi pensiamo di dialogare con un autore di 2000 anni addietro, che si esprime in una lingua che non è più la nostra, ecco che diventiamo fatalmente filologi. Il filosofare diventa uno spulciare testi altrui, da accompagnare spesso necessariamente con la lettura di tutti i dotti che su quelle carte hanno pure loro scritto qualcosa, magari utile e fondamentale per capire e far capire ciò che quel lontano pensatore ha detto, beninteso innanzitutto agli uomini della sua epoca. Quando, studente, traducevo dal greco Tucidide, ricordo che mi faceva letteralmente rabbrividire quel brano iniziale dove il più grande storico di tutti i tempi diceva chiaramente che non intendeva scrivere per lo spazio di una o due generazioni, ma per l’eternità. Cioè, io intendevo, già da studente liceale, che lui consapevolmente lanciava qualcosa nello spazio del tempo perché giungesse fino a me, sgomento ed incredulo che si potesse comunicare non già lontani nello spazio, ma pure lontani nel tempo, ad oltre due mila anni.

Ed apro una digressione che non è lontana dai problemi affrontati da Veneziani nel suo libro con il titolo “Vivere non basta”, anzi racchiusi nel titolo stesso. A me piaceva fare le etimologie, disponendo fortunatamente della conoscenza del greco e del latino. Ricordo di quegli anni liceali il significato che il termine greco per indicare il cittadino, il privato, mutò terribilmente nel volgere di un secolo, dal V al IV secolo avanti Cristo. Nel V secolo per tradurre cittadino, privato, si doveva usatr il termine greco, qui traslitterato, di “Idiotes”. Nel V secolo questo termine non aveva per nulla il significato offensiva che ha oggi “idiota”. Ma nel IV secolo abbiamo già un’angusta riduzione dalla dimensione pubblica a quella privata, per cui credo che nel IV secolo il termine incomincia ad assumere l’accezione odierna.

Insomma, è questo un piccolo esempio della prima perplessità che il Seneca di Veneziani suscita in me. Chiaramente, non è una critica. E meno che mai intendo dire che filosofare non si debba e non sia necessario. Forse la soluzione è nello sforzo che certamente dobbiamo fare per cercare di recuperare a noi, con tutti i mezzi ed il rigore possibile, le radici del nostro più remoto passato e riscoprire in questo modo la nostra identità, perduta o meno. Ma forse siamo nel giusto se assumiamo che il filosofare è sempre un rinascere in forme logiche mutevoli nella concretezza della nostra condizione storica, nel nostro presente. Ed in definitiva la filosofia è la comprensione della nostra quotidianità. Stavo per dire comprensione “profonda” in opposizione ad una superficialità che ci sovrasta, ma l’aggettivo “profondo” potrebbe essere del tutto ultroneo: la comprensione è o non è.

Chiudo questo paragrafo con un altro ricordo, assai diverso dal Tucidide scolastico. In Calabria, quando si ha un lutto in famiglia, nei paesi, si usa stare in casa per parecchi giorni. E si ricevono in casa le visite di condoglianza, dove chi viene cerca di dire qualche parola e di essere di conforto a chi a perso un parente, un congiunto. Erano i funerali di una mia zia, morta tragicamente a seguito di un investimento da parte un automobile, sulla statale 18, a Gioia Tauro, mentre mia zia – poco prudente – si precipitava a ordinare la pizza, per poi pagarla lei e non il suo ospite... Ebbene, tra le numerose persone che vennero al lutto della zia, ricordo un anziano signore, assai anziano, che mi lasciò incantato per la sua saggezza. Mi dissero che era analfabeta. E mai avrebbe potuto leggere Seneca e meno che mai immaginarsi Lucilio che rispondesse alle lettere di Seneca. Senza nessuna offesa per il filosofo antico, io penso che l’analfabeta di Melicuccà potesse ben reggere il confronto con Seneca. Ma quando penso a quel vecchio che non ho mai più rivisto e che non credo viva ancora pensavo piuttosto ad Hegel che non a Seneca. Con Hegel intendo il suo sistema dell’eticità dove si postula l’esistenza di una comunità che vive con sue proprie norme etiche che si tramandano di generazione e generazione e che ognuno apprende in forma orale e comportamentale. Questo mondo non esiste più e non siamo aggrediti tutti i giorni dalla comunicazione commerciale, dalla pubblicità, dalla reclame, che fissa i contenuti del nostro vivere ed i valori che devono orientarci. Per non parlare poi della comunicazione politica, ancora più nefasta. Ma questa è un’altra storia.

(segue)


mercoledì, dicembre 19, 2007

Sui libri di Giampaolo Pansa

Versione 1.0

Non ho da fare una critica, e per giunta una cattiva critica. Avverto solo un senso di insofferenza che non è una critica all'autore, ma a me stesso in quanto non ho più la pazienza per leggere pagine e pagine che mi sottraggono tempo. Il contenuto, se espresso in forma saggistica, potrebbe venir riassunto in una o in poche pagine. Pansa è nato prima di me ed ha visto la guerra. Io ho potuto risparmiarmela e sono vissuto all'estremo nel mio primo decennio, poi in Roma e per qualche anno anche nell'hinterland milanese. Non ho vissuto la guerra, ma ho subito la nostra scuola ed il suo programma educativo. È come se fossi stato educato nelle tenebri. Ho dovuto aspettare gli anni della maturità avanzata per acquisire – spero – un’attitudine critica di fronte al reale ovvero alla repubblica delle lettere. Non ho scritto quanto ha scritto Pansa, ma questa è stata forse una fortuna, non una disgrazia: avrei dovuto poi vergognarmi delle cose scritte e rinnegarle. Adesso, e solo adesso, mi prende una mania di voler scrivere. Ma è uno scrivere sull’acqua, cioè qui nel ciberspazio.

Mi fa pena, in un certo senso, il Signor Pansa. Forse è un povero disgraziato, ma ripeto non intendo offenderlo. Considero disgraziata la sua generazione...

(segue)

domenica, luglio 08, 2007

Filosofia della comunicazione: la blogsfera

Versione 1.0

Raccolgo in questo post una serie di links sui nuovi aspetti della comunicazione. Non saprei dove altrimenti collocarli. Per secoli siamo stati abituati ad un modello verticale della comunicazione: qualcuno su un podio, un pulpito o una cattedra parla a molti che spesso sono come il popolo, timoroso e suddito. Con internet e la sue varie forme, qualcosa o molto sta cambiando. Si tratta di averne una sufficiente consapevolezza e di capire i processi in atto o quantomeno averne adeguata informazione. È quanto tenterà di fare, in modo ordinato, in questo post. Seguono una serie di link che trovo interessanti nel contesto sopra detto. Se del caso, tenterò mie personali osservazioni.

1. Lovink: Annegare in un arcipelago di link.
2. Lovink: veloci, leggeri, personali. I blog prendono il volo.
3. Lovink: Alla scoperta della ragion cinica.
4. Lovink: cosa c’è di nichilista nella bolgsfera?.

sabato, aprile 28, 2007

Il Gesù di Ratzinger

Ho sbirciato in libreria la pagina 107 del libro tanto pubblicizzato su Gesù, scritto da Benedetto XVI. Mi ha sorpreso, e direi piuttosto sconcertato, il passo dove l’Autore spiega che la conquista violenta della terra promessa, dopo l’esodo dall’Egitto, si giustifica pienamente come diritto ad avere un luogo per l’adorazione di Dio, liberando il luogo dagli idolatri che in quanto tali non hanno diritti, se non quello di abbandonare l’idolatria ed adorare l’unico vero Dio. Ed anche così non è del tutto certo che vada loro bene. A me questo sa di violenza ed intolleranza. Se questo è il Gesù di Ratzinger, direi che siamo piuttosto distanti, ma al momento non ho nessuna voglia di entrare in disputa con il papa per giunta su un argomento che fa parte del suo mestiere.

sabato, aprile 14, 2007

George Tyrrell. Note per uno studio.

Non so di quale quotazioni goda Peter De Rosa, autore di un libro dal titolo ”Vicari di Cristo. Il lato oscuro del papato”. Il titolo inglese originale suona soltanto Vicars of Christ ed è del 1988. Il suo autore, laureatosi in Roma alla Gregoriana, «è stato per sei anni professore di Etica e Metafisica al seminario di Westminster e professore di teologia al Corpus Christi College. Ha abbondonato l’abito talare nel 1970 e attualmente [1991] vive in Irlanda con la moglie e due figli». In qualche passo che non ho annotato scrive di aver avuto bisogno di trent’anni per scrivere il libro, ma con grande cautela scrive accanto al frontespizio una Nota per il Lettore, dove avverte che: «Il presente libro non vuole essere un’opera di teologia, né tantomeno un testo sul papato. È un’indagine sul ruolo dei papi alla luce della storia, della cultura, dell’etica e della personalità degli stessi papi. Sebbene qui io, come Dante, ponga l’accento sul lato oscuro del papato, si tratta tuttavia di un amico, non di un nemico». Non so come interpretare la Nota, a chi sia rivolta, quali timori nasconde. Tenterò di fare un’indagine specifica. Ne potrebbe venir fuori qualcosa di istruttivo. Per quel che mi riguarda trovo il libro ben fatto, robusto. Poteva essere scritto soltanto da uno che fosse stato “all'interno” della chiesa cattolica. Non dubito che si sia fatto dei nemici o che sia stato “scomunicato”. È per me me utile allo scopo di trarre numerose schede da approfondire ulteriormente.

Tra quelle quelle dei “modernisti” colpiti con ignoranza papale e senza nessuna carità cristiana come George Tyrrell. Si tratta di un “amico” del papato, non di un suo nemico. Se sono trattati così gli amici, figuriamoci i nemici! Per quello che mi riguarda non mi professo “amico” del papato o del cattolicesimo, ma non mi piace esserne neppure il “nemico”. Con la sua influenza capillare in tutta la storia della cultura occidentale, il papato ed il cattolicesimo ha avuto un’influenza nefasta, privandoci di molte cose buone che potevano essere e non sono state. Se queste sono le “radici cristiane”, a mio avviso si tratta di una tara ereditaria, di cui dolerci. Si tratta quindi di assumere non una atteggiamento “anti”, ma di un posizione “pre”-cristiana o “extra”-cristiana. In questo senso può essere utile ripercorrere la storia del papato e del cattolicesimo, lasciando perdere il concetto teologico di “chiesa” che potrà interessare i teologi o i cosiddetti credenti che non vedono il quadro storico fattuale e si immaginano l’opera della Provvidenza in tutte le vicende che hanno interessato un’istituzione più che millenaria. Per un’opera simile di ricostruzione si deve essere necessariamente “esterni” al fenomeno storico del cristianesmo, anche se non si potrà a meno di opere “interne” benché critiche come quelle di Peter De Rosa, che a mio avviso è modesto nell’autovalutazione del suo libro.

George Tyrrell nacque a Dublino nel 1861. Morì nel 1909. Gli fu negata la sepoltura religiosa. Riteneva che Tommaso d’Aquino avrebbe certamente letto le opere di Galileo, Newton, Darwin, traendone profitto. Avrebbe scritto diversamente i suoi libri. Non è difficile condividere questo giudizio. Se Tommaso d’Aquino è stato nel suo campo un gigante, tutti quelli che sono venuti dietro di lui nel suo stesso campo sono dei nani. Nessuno è salito sulle sue spalle per vedere di più. A mio modesto avviso, il complesso teologico del cattolicesimo è la strada maestra verso l’ateismo, un mostro paventato dagli uomini di chiesa. Anzi sono convinto che i più convinti atei si trovino fra il clero cattolico in tutte le infinite articolazioni. Io parlo genericamente di religiosità o di sentimento religioso della vita e della natura, proprio di ogni uomo non ridotto ad uno stato di abbrutimento. In questa condizione ci siamo arrivati grazie al cattolicesimo e all’opera della sua Chiesa. Ma trattasi di lungo discorso che potremo fare poco alla volta e per sempre maggiori approsimazione. Se ne avremo il tempo e le forze. L’opera di Tyrrell contiene probabilmente spunti e suggestioni interessanti. Non so se troverò il tempo per leggere qualcosa, ma dalle schede mi sono fatto l’idea che egli riesca a coniugare in modo creativo gli apporti della scienza moderna all’interno di una sensibilità religiosa nella forma ortodossa della tradizione cattolico, ovvero resta all’interno della religiose cristiana.

Links:
1. Wikipedia: George Tyrrel. Si oppose al dogma dell’infallibilità papale.
2. Il modernismo cattolico

martedì, aprile 10, 2007

Erik Erikson, studioso della identità?

Leggo in Samuel P. Huntington, La nuova America, p. 35: «Il “concetto di identità”, come è stato detto, “è tanto indispensabile quanto nebuloso”. E’ “polisfaccettato, difficile da definire e sfugge a quasi tutti i metodi ordinari di misurazione”. Erik Erikson, il maggior studioso del XX secolo in tema di identità, ha definito questo concetto “estremamente pervasivo”, ma anche “vago” e “imprecisabile”». Mai sentito prima nominare! Il concetto è tuttavia di estrema importanza per un cultore di studi schmittiani. Se però Huntington non ha saputo trarre citazioni più significative da quello che sarebbe il “maggiore studioso” del XX secolo in ordine a questo importante concetto, stiamo proprio freschi. Metto in questo blog tutte le schede che potrò trovare sul “maggiore studioso”. Dalla prima scheda non trovo neppure menzionata la teoria dell'identità secondo Erikson, che sarebbe uno psicologo. Vedremo.

Links:
1. Erik Erikson: una scheda bio-biblografica