Non immaginavo che avrei scritto subito in margine al libro di Marcello Veneziani su Seneca. Questo blog che mi sta non poco a cuore aveva bisogno di urgente aggiornamento. Voglio insistere sul tono dimesso e per nulla pretenzioso di ciò che mi capiterà di scrivere: non intendo emulare Hegel, Kant o Seneca. Nessuna pretesa blasfema di questo genere. Parto semplicemente dall’assunto che ogni uomo per il fatto di essere pensante abbia pensieri, sui quale qualche volta è il caso di soffermarsi. Pur avendo fatto per tutta la vita professionale lo specifico mestiere di “filosofo”, nel senso che percepisco uno stipendio per occuparmi di filosofia, sono state sempre estremanente riluttante a qualificarmi come “filosofo”. Ma allora, se non lo sono, che sono? Mah! Lasciamo perdere. Parliamo invece del Seneca (e del Lucilio) di Marcello Veneziani. Ho detto altrove che avrei letto il libro, per fortuna non voluminoso, di appena 130 pagine, e ne avrei scritto note a margine. Penso che sia più opportuno concentrarle tutte il questo stesso post, che avrà puù versioni. Se a Marcello capiterà di navigherà fino a questa pagina, o vorrà farlo di tanto in tanto, potrà sapere – dal numero della versione e dalla data – l’ultima volta che ci ho messo mano. Se mai la cosa si dovesse sviluppare in dimensioni, non lo so, predispongo già un sommario ed una serie di links, interni ed esterni, per una più agevole lettura, magari per lo stesso Marcello, che potrebbe essere interessato alle reazioni mentali che il suo ultimo libro può suscitare in un suo lettore, per giunta suo amico, o che si onora di esserlo e di dichiararsi tale.
Sommario: 1. Il passato che ci divide. –
1. Il passato che ci divide. – Mi ero messo steso sul divano, iniziando la lettura di Marcello, che parla fantasticamente del ritrovamento in Pompei delle lettere di Lucilio. L’accenno all’assoluta vergogna del crollo del nostro patrimonio artistico e monumentale è di assoluta evidenza. Non credo che questo triste fatto di cronaca della nostra decadenza merito ulteriore commento. Più meritevole mi sembra un’altra considerazione, che mi ha occupato per molto tempo e che non credo di avere risolto. Il padre di Marcello era un insegnante di filosofia e fu da suo padre che Marcello ebbe in mano il testo di Seneca. In un senso tutto scolastico Marcello ha dunque già appreso dal padre tutto quello che su Seneca si può apprendere a scuola, e che poi magari si dimentica, cancellato più dalla noia che dal fatale indebolimento della memoria. Il problema che mi pongo e pongo è il seguente: i duemila anni, circa, che ci separano da Seneca ed il Lucilio storico sono o non sono una barriera incolmabile?
Un pensiero, originale, si forma e riforma sempre in un contesto storico determinato. Quando noi pensiamo di dialogare con un autore di 2000 anni addietro, che si esprime in una lingua che non è più la nostra, ecco che diventiamo fatalmente filologi. Il filosofare diventa uno spulciare testi altrui, da accompagnare spesso necessariamente con la lettura di tutti i dotti che su quelle carte hanno pure loro scritto qualcosa, magari utile e fondamentale per capire e far capire ciò che quel lontano pensatore ha detto, beninteso innanzitutto agli uomini della sua epoca. Quando, studente, traducevo dal greco Tucidide, ricordo che mi faceva letteralmente rabbrividire quel brano iniziale dove il più grande storico di tutti i tempi diceva chiaramente che non intendeva scrivere per lo spazio di una o due generazioni, ma per l’eternità. Cioè, io intendevo, già da studente liceale, che lui consapevolmente lanciava qualcosa nello spazio del tempo perché giungesse fino a me, sgomento ed incredulo che si potesse comunicare non già lontani nello spazio, ma pure lontani nel tempo, ad oltre due mila anni.
Ed apro una digressione che non è lontana dai problemi affrontati da Veneziani nel suo libro con il titolo “Vivere non basta”, anzi racchiusi nel titolo stesso. A me piaceva fare le etimologie, disponendo fortunatamente della conoscenza del greco e del latino. Ricordo di quegli anni liceali il significato che il termine greco per indicare il cittadino, il privato, mutò terribilmente nel volgere di un secolo, dal V al IV secolo avanti Cristo. Nel V secolo per tradurre cittadino, privato, si doveva usatr il termine greco, qui traslitterato, di “Idiotes”. Nel V secolo questo termine non aveva per nulla il significato offensiva che ha oggi “idiota”. Ma nel IV secolo abbiamo già un’angusta riduzione dalla dimensione pubblica a quella privata, per cui credo che nel IV secolo il termine incomincia ad assumere l’accezione odierna.
Insomma, è questo un piccolo esempio della prima perplessità che il Seneca di Veneziani suscita in me. Chiaramente, non è una critica. E meno che mai intendo dire che filosofare non si debba e non sia necessario. Forse la soluzione è nello sforzo che certamente dobbiamo fare per cercare di recuperare a noi, con tutti i mezzi ed il rigore possibile, le radici del nostro più remoto passato e riscoprire in questo modo la nostra identità, perduta o meno. Ma forse siamo nel giusto se assumiamo che il filosofare è sempre un rinascere in forme logiche mutevoli nella concretezza della nostra condizione storica, nel nostro presente. Ed in definitiva la filosofia è la comprensione della nostra quotidianità. Stavo per dire comprensione “profonda” in opposizione ad una superficialità che ci sovrasta, ma l’aggettivo “profondo” potrebbe essere del tutto ultroneo: la comprensione è o non è.
Chiudo questo paragrafo con un altro ricordo, assai diverso dal Tucidide scolastico. In Calabria, quando si ha un lutto in famiglia, nei paesi, si usa stare in casa per parecchi giorni. E si ricevono in casa le visite di condoglianza, dove chi viene cerca di dire qualche parola e di essere di conforto a chi a perso un parente, un congiunto. Erano i funerali di una mia zia, morta tragicamente a seguito di un investimento da parte un automobile, sulla statale 18, a Gioia Tauro, mentre mia zia – poco prudente – si precipitava a ordinare la pizza, per poi pagarla lei e non il suo ospite... Ebbene, tra le numerose persone che vennero al lutto della zia, ricordo un anziano signore, assai anziano, che mi lasciò incantato per la sua saggezza. Mi dissero che era analfabeta. E mai avrebbe potuto leggere Seneca e meno che mai immaginarsi Lucilio che rispondesse alle lettere di Seneca. Senza nessuna offesa per il filosofo antico, io penso che l’analfabeta di Melicuccà potesse ben reggere il confronto con Seneca. Ma quando penso a quel vecchio che non ho mai più rivisto e che non credo viva ancora pensavo piuttosto ad Hegel che non a Seneca. Con Hegel intendo il suo sistema dell’eticità dove si postula l’esistenza di una comunità che vive con sue proprie norme etiche che si tramandano di generazione e generazione e che ognuno apprende in forma orale e comportamentale. Questo mondo non esiste più e non siamo aggrediti tutti i giorni dalla comunicazione commerciale, dalla pubblicità, dalla reclame, che fissa i contenuti del nostro vivere ed i valori che devono orientarci. Per non parlare poi della comunicazione politica, ancora più nefasta. Ma questa è un’altra storia.
Sommario: 1. Il passato che ci divide. –
1. Il passato che ci divide. – Mi ero messo steso sul divano, iniziando la lettura di Marcello, che parla fantasticamente del ritrovamento in Pompei delle lettere di Lucilio. L’accenno all’assoluta vergogna del crollo del nostro patrimonio artistico e monumentale è di assoluta evidenza. Non credo che questo triste fatto di cronaca della nostra decadenza merito ulteriore commento. Più meritevole mi sembra un’altra considerazione, che mi ha occupato per molto tempo e che non credo di avere risolto. Il padre di Marcello era un insegnante di filosofia e fu da suo padre che Marcello ebbe in mano il testo di Seneca. In un senso tutto scolastico Marcello ha dunque già appreso dal padre tutto quello che su Seneca si può apprendere a scuola, e che poi magari si dimentica, cancellato più dalla noia che dal fatale indebolimento della memoria. Il problema che mi pongo e pongo è il seguente: i duemila anni, circa, che ci separano da Seneca ed il Lucilio storico sono o non sono una barriera incolmabile?
Un pensiero, originale, si forma e riforma sempre in un contesto storico determinato. Quando noi pensiamo di dialogare con un autore di 2000 anni addietro, che si esprime in una lingua che non è più la nostra, ecco che diventiamo fatalmente filologi. Il filosofare diventa uno spulciare testi altrui, da accompagnare spesso necessariamente con la lettura di tutti i dotti che su quelle carte hanno pure loro scritto qualcosa, magari utile e fondamentale per capire e far capire ciò che quel lontano pensatore ha detto, beninteso innanzitutto agli uomini della sua epoca. Quando, studente, traducevo dal greco Tucidide, ricordo che mi faceva letteralmente rabbrividire quel brano iniziale dove il più grande storico di tutti i tempi diceva chiaramente che non intendeva scrivere per lo spazio di una o due generazioni, ma per l’eternità. Cioè, io intendevo, già da studente liceale, che lui consapevolmente lanciava qualcosa nello spazio del tempo perché giungesse fino a me, sgomento ed incredulo che si potesse comunicare non già lontani nello spazio, ma pure lontani nel tempo, ad oltre due mila anni.
Ed apro una digressione che non è lontana dai problemi affrontati da Veneziani nel suo libro con il titolo “Vivere non basta”, anzi racchiusi nel titolo stesso. A me piaceva fare le etimologie, disponendo fortunatamente della conoscenza del greco e del latino. Ricordo di quegli anni liceali il significato che il termine greco per indicare il cittadino, il privato, mutò terribilmente nel volgere di un secolo, dal V al IV secolo avanti Cristo. Nel V secolo per tradurre cittadino, privato, si doveva usatr il termine greco, qui traslitterato, di “Idiotes”. Nel V secolo questo termine non aveva per nulla il significato offensiva che ha oggi “idiota”. Ma nel IV secolo abbiamo già un’angusta riduzione dalla dimensione pubblica a quella privata, per cui credo che nel IV secolo il termine incomincia ad assumere l’accezione odierna.
Insomma, è questo un piccolo esempio della prima perplessità che il Seneca di Veneziani suscita in me. Chiaramente, non è una critica. E meno che mai intendo dire che filosofare non si debba e non sia necessario. Forse la soluzione è nello sforzo che certamente dobbiamo fare per cercare di recuperare a noi, con tutti i mezzi ed il rigore possibile, le radici del nostro più remoto passato e riscoprire in questo modo la nostra identità, perduta o meno. Ma forse siamo nel giusto se assumiamo che il filosofare è sempre un rinascere in forme logiche mutevoli nella concretezza della nostra condizione storica, nel nostro presente. Ed in definitiva la filosofia è la comprensione della nostra quotidianità. Stavo per dire comprensione “profonda” in opposizione ad una superficialità che ci sovrasta, ma l’aggettivo “profondo” potrebbe essere del tutto ultroneo: la comprensione è o non è.
Chiudo questo paragrafo con un altro ricordo, assai diverso dal Tucidide scolastico. In Calabria, quando si ha un lutto in famiglia, nei paesi, si usa stare in casa per parecchi giorni. E si ricevono in casa le visite di condoglianza, dove chi viene cerca di dire qualche parola e di essere di conforto a chi a perso un parente, un congiunto. Erano i funerali di una mia zia, morta tragicamente a seguito di un investimento da parte un automobile, sulla statale 18, a Gioia Tauro, mentre mia zia – poco prudente – si precipitava a ordinare la pizza, per poi pagarla lei e non il suo ospite... Ebbene, tra le numerose persone che vennero al lutto della zia, ricordo un anziano signore, assai anziano, che mi lasciò incantato per la sua saggezza. Mi dissero che era analfabeta. E mai avrebbe potuto leggere Seneca e meno che mai immaginarsi Lucilio che rispondesse alle lettere di Seneca. Senza nessuna offesa per il filosofo antico, io penso che l’analfabeta di Melicuccà potesse ben reggere il confronto con Seneca. Ma quando penso a quel vecchio che non ho mai più rivisto e che non credo viva ancora pensavo piuttosto ad Hegel che non a Seneca. Con Hegel intendo il suo sistema dell’eticità dove si postula l’esistenza di una comunità che vive con sue proprie norme etiche che si tramandano di generazione e generazione e che ognuno apprende in forma orale e comportamentale. Questo mondo non esiste più e non siamo aggrediti tutti i giorni dalla comunicazione commerciale, dalla pubblicità, dalla reclame, che fissa i contenuti del nostro vivere ed i valori che devono orientarci. Per non parlare poi della comunicazione politica, ancora più nefasta. Ma questa è un’altra storia.
(segue)